< PreviousI chip sono al centro del mondo moderno, anche se rara- mente ci soffermiamo a pensarci. La capacità di una nazione di gesti- re l’elaborazione dei dati oggi definisce il suo destino. Senza i semiconduttori e i prodotti elettronici da essi derivati, la globalizzazione che conosciamo sarebbe impensabile. La supremazia militare de- gli Stati Uniti è fortemente legata all’uso dei chip per scopi bellici. Allo stesso modo, l’incredibile crescita economica dell’Asia degli ultimi decenni si basa sulla produzione di chip e sull’assem- blaggio dei dispositivi tecnologici che questi circuiti rendono possibili. E l’A- sia è al centro dell’uragano “bellico” che vede contrapposti gli Stati Uniti alla Cina nel campo dell’informatica e che ha come terreno di scontro Taiwan. La Taiwan Semiconductor Manufacturing Company produce chip con le dimen- sioni dei transistor più piccoli al mondo, cosa che aumenta la capacità di calcolo dei dispositivi elettronici che non po- trebbero essere così potenti come sono ora. Ciò consente di mettere un trilione, ossia mille miliardi, di transistor nei mi- croprocessori A14 degli iPhone 12, che sono stati venduti nel 2020 in oltre 100 milioni di unità. E la maggior parte dei chip a livello mondiale sono pensati da pochi progettisti in massima parte cali- forniani e realizzati in Asia, a Taiwan, Corea del Sud e Giappone creando così una filiera a senso unico dalla cui di- pendenza Europa, Stati Uniti e resto del mondo si sono accorti quando questi stabilimenti sono stati bloccati dal Co- vid-19 e da alcuni altri eventi che hanno bloccato tutte le industrie di automobi- li, elettrodomestici, computer, cellulari e altri beni di consumo. Chip esclusivi Pochissime aziende dominano com- pletamente l’economia dei chip. I semiconduttori taiwanesi rappresen- tano il 37% della potenza di calcolo globale ogni anno, mentre due società coreane producono il 44% dei chip di memoria a livello mondiale. L’olandese ASML fornisce il 100% delle macchine per litografia ultravioletta estrema, in- dispensabili per produrre chip avanzati. Al confronto, il controllo del 40% del- la produzione mondiale di petrolio da 40 L’ECOFUTURO MAGAZINE Settembre-Ottobre 2024 Tecnologia di Sergio Ferraris giornalista scientifico, caporedattore “L’Ecofuturo Magazine” Arruolare i chip I chip sono stati e sono ancora, un campo di battaglia geopolitico di grande rilevanzaparte dell’OPEC appare insignificante. Il perché di un tale intreccio e polariz- zazione è presto detto. Fin dagli anni ottanta del secolo scorso l’applicazione della capacità di calcolo miniaturizzata è passata dalle applicazioni militaria a quelle dei computer “distribuiti”, ossia dei piccoli dispositivi autonomi che si possono installare in casa e negli uffici, per poi finire nei dispositivi di consumo. Il Walkman di Sony che rese la musica di qualità portatile fu il primo di questi dispositivi che impiegava i cinque chip più avanzati per uso civile progettati in California, ma prodotti in Giappone. A seguire, fu una pioggia di dispositivi civili che approdavano a nuove presta- zioni grazie alla potenza di calcolo, con le filiere di produzione che s’intrecciava- no in una complessità senza precedenti. Paradigmatica è la storia del personal computer di Olivetti che arrivata secon- da a livello mondiale verso la fine degli anni ’70 nella produzione commercia- le di computer da tavolo, dopo Apple ma battendo sul filo di lana il colosso a stelle e strisce IBM, produceva i propri dispositivi informatici a Ivrea usando chip statunitensi e giapponesi, mentre quasi dieci anni dopo a Ivrea si faceva solo l’assemblaggio finale e il collaudo, con la maggior parte della produzio- ne esternalizzata a Taiwan, per ragioni di costi, stabilità produttiva e anche di cultura industriale. Cultura industriale che a partire dal Giappone ha influen- zato tutta quella asiatica e che prende spunto dalla concezione stessa dell’arte che è vista come una pratica ripetitiva, volta al miglioramento costante, nella quale artisti, artigiani e maestri ripetono lo stesso gesto o creazione per tutta la vita, non con l’obiettivo di innovare o di creare qualcosa di completamente nuo- vo, ma per perfezionare la tecnica. Una logica che traslata a livello industriale è perfetta per la produzione di massa e ad alto contenuto digitale. E che ha trovato una grande applicazione nel concetto di qualità totale, Kaizen, messo a punto da Toyota per le autovetture e si può rias- sumere nelle poche parole che troviamo scritte in tutti i prodotti Apple e che sintetizzano il forte intreccio, e la dipen- denza, industriali: “Designed by Apple in California”. “Assembled in China”. Una frase che spiega come il processo in cui il design e la concezione dei pro- dotti avvengono in California, sede del quartier generale di Apple, mentre l’as- semblaggio fisico dei dispositivi avviene principalmente in Cina, negli stabili- menti delle aziende cinesi Foxconn e Pegatron. Ma attenzione perché i chip sono realizzati a Taiwan. Una logica quasi obbligata quella di Apple, anche perché verso la fine del secolo scorso la corsa alla riduzione dei costi, con un conseguente aumento del margine per unità di prodotto finale al consumato- re aveva portato a un cambio radicale nella produzione di chip. Nel 1990, gli Stati Uniti producevano il 37% dei chip mondiali, ma la quota scese al 19% nel 2000 e al 13% nel 2010, un declino che subì anche il Giappone. Ridurre i costi industriali attraverso la delocalizzazione era la regola di quegli anni, senza curar- si eccessivamente degli aspetti strategici di medio e lungo periodo, proteggendo gli utili immediati a ogni costo. Logica quest’ultima che portò un colosso come Intel a rifiutare un accordo con Apple per la produzione di chip destinati all’i- Phone. Nel frattempo le tecnologie per la produzione dei chip affluivano sempre più verso l’Asia, con la Cina che resasi conto dell’importanza dei chip scatenò un’offensiva fatta di joint venture tecno- logiche condita da assunzioni di massa di personale qualificato, investendo an- che nella produzione dei wafer di silicio, cosa le sarebbe tornata molto utile con il nascente mercato del fotovoltaico. Così, gli Stati Uniti si cullavano nella convin- zione d’essere indispensabili visto che le aziende “senza fabbriche” californiane controllavano alcuni aspetti strategici come i sistemi per la creazione e corre- zione dei sistemi litografici necessari alla realizzazione dei chip, mentre era sem- pre più appetibile l’accesso al mercato interno cinese che nei primi anni 2000 era in grande crescita. Chip globali La condizione posta dal governo cinese sul fatto che i prodotti destinati al mer- cato interno dovessero essere realizzati in Cina non sembrava un pericolo. La produzione a basso costo e l’accesso a un mercato di 1,3 miliardi di consumatori, entrambi immediati, era un’ottima que- stione per gli istinti di amministratori delegati che vedevano esclusivamente le trimestrali di cassa. «Commercio e investimenti faranno diventare la Ci- na un attore responsabile» disse il 21 settembre 2005 Robert Zoellick, allora Vicesegretario di Stato USA e successiva- mente presidente della Banca Mondiale. Del resto, la logica della globalizzazione faceva sembrare impossibile l’idea di mettere in atto controlli molto stretti sulle tecnologie, specialmente all’epoca quando non si voleva vedere ciò che pro- duceva la delocalizzazione in Asia. «Le probabilità che gli Stati Uniti diventino dipendenti da qualsiasi altro Paese, e in particolare dalla Cina, per qualsiasi pro- 41 L’ECOFUTURO MAGAZINE Settembre-Ottobre 2024 Foto: Depositphotos42 L’ECOFUTURO MAGAZINE Settembre-Ottobre 2024 Tecnologia dotto specialmente per i semiconduttori, è estremamente bassa», scrisse nel 2010 Adam Segal, uno dei massimi esperti di politica tecnologica, in relazione alla Ci- na e agli Stati Uniti. Del resto una delle logiche alla base della delocalizzazione non erano solo i profitti ma la possibilità di svincolarsi dai processi e dai costi, del- la produzione fisica. C’era la necessità di svincolare l’aspetto progettuale da quello realizzativo per due motivi. Il primo è che in una fase di start up di prodotto avere in casa i costi di produzione di li- nee ex novo poteva portare al fallimento dell’iniziativa, mentre il secondo era rap- presentato dal fatto che i chip dagli anni novanta non erano più solo quelli logici come i microprocessori o di memoria, come le RAM ma anche quelli che gesti- vano i segnali analogici come la grafica, l’audio e le telecomunicazioni. Si tratta di chip che non necessitano di sistemi sofisticati di produzione come quelli dei microprocessori e che erano visti come “non essenziali” in quanto dedicati a uti- lizzi “periferici”. Chip fabless Aziende diventate enormi come Ndivia, specializzata in chip grafici o Qualcomm specializzata in chip per telecomuni- cazioni sono compagnie fabless. Ossia senza fabbriche proprie che poggiano fatturati miliardari su stabilimenti di al- tri. Cinesi. Trasferimento tecnologico di tecnologie considerate, a torto, non di punta. L’unico ad avere qualche dubbio nel 2007 fu un Richard Van Atta, ex uf- ficiale del Pentagono specializzato nella microelettronica per la Difesa, al quale il dipartimento della Difesa statuniten- se commissionò uno studio sull’impatto della globalizzazione dell’industria dei semiconduttori sulle filiere di approv- vigionamento dell’Esercito USA. Van Atta, rilevando l’ovvietà, riferì che la possibilità, per il dipartimento della Di- fesa, di avere accesso ai chip di ultima generazione sarebbe presto dipesa da paesi stranieri, perché una parte molto larga della produzione avanzata si stava spostando all’estero e concluse: «Con ogni probabilità, la posizione dominan- te degli USA verrà seriamente intaccata nei prossimi dieci anni». Ma nessuno lo ascoltò. Ma ricerca, tecnologia e scien- za non hanno mai percorsi lineari. Nei primi anni 2000 a Ndivia arrivarono le notizie che alcuni dottorandi di Stan- ford usavano le sue unità di elaborazione grafiche, le GPU, per elaborazioni che nulla avevano a che fare con la grafica. Erano i primi vagiti di modalità d’e- laborazione radicalmente diverse da quelle del microprocessore, come le criptovalute, la blockchain e l’intelligen- za artificiale, tutte applicazioni dove il calcolo sequenziale dei microprocessori è micidialmente meno efficiente, sia in termini di velocità sia di consumi ener- getici, rispetto alle GPU che processano migliaia di informazioni in parallelo. Nel frattempo Intel, negli USA aveva, ed ha ancora, difficoltà a innovare nel passag- gio delle dimensioni dei transistor da 10 a 7 nanometri, essenziale per aumentare la velocità di calcolo, mentre questo sal- to è riuscito alla TSMC, di Taiwan e alla coreana Samsung. Tutte e due dal punto di vista geopolitico molto, forse troppo, vicine al grande gigante asiatico: la Cina. Che ora dopo aver atteso per anni vuo- le diventare protagonista. I motivi sono diversi. Il primo, è che tutto il sistema della sorveglianza digitale cinese che è capillare, è bastato su chip progettati negli Stati Uniti, il secondo, è che tutta l’architettura informatica civile è basata su sistemi Intel con software Microsoft, mentre il terzo è che la Cina si è stanca- ta di fare il mero assemblatore lasciando la gran parte dei profitti ad altre aziende come Apple. E il modello al quale ispi- rarsi è a poche centinaia di chilometri: la Corea del Sud. La Cina negli ultimi dieci anni ha usato il bastone e la carota. Il bastone del trasferimento tecnologico forzato, magari di tecnologie non priori- tarie e la carota di un accesso al mercato più grande del Pianeta, offrendo questa carota specialmente alle aziende in cri- si. Tutto ciò anche per scrollarsi un peso economico non da poco se si pensa che nel 2017 la Cina ha pagato 270 miliardi di dollari per l’import dei chip. Una cifra che supera quella dell’export di petrolio dell’Arabia Saudita. Chip e spie E così, coniugando questi ingredienti assieme a un ottimo livello di qualità produttiva, investimenti per 15 miliar- di di dollari in ricerca e sviluppo e un 43 L’ECOFUTURO MAGAZINE Settembre-Ottobre 2024 po’ di spionaggio ecco che si affaccia sulla scena mondiale Huawei che nel giro di un decennio diventa un colosso. La logica dell’azienda è quello di supe- rare il dogma del copiare proprio delle aziende dell’epoca e la strategia è il pun- tare sulle telecomunicazioni lungo tutta la filiera, dalle interconnessioni di rete, agli smartphone, passando per i ponti radio. Il tutto supportato da aiuti statali che per “The Wall Street Journal” han- no raggiunto la quota di 75 miliardi di dollari. L’azienda conquistava ogni an- no sempre maggiori quote di mercato nel campo delle reti di comunicazione, nonostante gli allarmi dei servizi segre- ti americani che mettevano in guardia sul potere crescente dell’azienda che aveva stretti legami, anche a livello di sicurezza, con il Governo cinese. Per le aziende occidentali del settore, le alternative a ciò erano poche: fallire o fondersi. La canadese Nortel è fallita. La Alcatel-Lucent, la società che aveva ereditato i Bell Labs dopo lo scorporo di AT&T, ha venduto le sue attività alla finlandese Nokia. Ma il potere di Huawei ha continuato ad aumentare. Dopo l’infrastruttura ha dato l’assalto al mercato degli smartphone diventando, dopo Samsung, il secondo produttore al mondo per pezzi venduti. Non so- lo. Dopo il blocco della produzione di chip a Taiwan a seguito del terremoto del 2011, quello di Fukushima, Huawei decise che doveva rendersi indipendente e, seguendo la strada di Samsung inizio a studiare la progettazione autonoma dei 250 chip cruciali per la telefonia. La produzione sarebbe avvenuta sempre a Taiwan; si era fermata per pochi gior- ni dopo il terremoto ma la strada per l’indipendenza era tracciata e Huawei stava sfidando l’ultimo monopolio degli Stati Uniti, quello della proget- tazione dei chip e lo stava facendo su un territorio cruciale: quello delle reti 5G. Il 5G è cruciale per la quantità di dati che può supportare, cosa che lo rende indispensabile, per esempio per le auto elettriche a guida autonoma e per altre migliaia di applicazioni. Ed è nel 2017, quando gli operatori inizia- rono a realizzare le reti 5G che divenne chiaro il vantaggio di Huawei. Sistemi e ponti radio, migliori, più efficienti e a prezzo più basso erano quelli fabbrica- ti in Cina, anche se ancora dipendenti per il 30% da chip a stelle e strisce, ma l’unità centrale è progettata dal gigan- te asiatico. E ciò che ha sconvolto gli ambienti informatici civili, e militari, è la rapidità con la quale Huawei sia riu- scita a ridurre drasticamente la propria dipendenza dai chip made in USA. Una cosa analoga sta avvenendo per il setto- re militare cinese che per anni è riuscito ad aggirare, grazie ad accordi commer- ciali, qualsiasi ostacolo nell’acquisto di chip statunitensi al punto che meno del 20% dei contratti di fornitura di chip o tecnologie informatiche, riguardante l’Intelligenza Artificiale era soggetto a qualche forma di controllo statuniten- se. Prove sul fatto che Huawei stesse usando il 5G come cavallo di Troia per la Cina ce ne sono, anche se i divieti da parte USA sull’utilizzo di chip fatti da aziende statunitensi in realtà si ri- levarono essere delle armi spuntate. I chip cinesi infatti venivano progettati con software statunitense ma prodotti a Taiwan con il risultato di non rientra- re nei divieti. Allora l’amministrazione Trump giunse alla conclusione di dover militarizzare le filiere dei semicondutto- ri. Tutte le tecnologie a Stelle e Strisce non dovevano essere fornite a Huawei, dai chip ai software di produzione, passando per il sistema operativo degli smartphone Android. La Cina in tut- to ciò non ha attivato ritorsioni. Ha lasciato che la sua industria di punta Huawei perdesse le varie leadership mondiali che aveva per diventare una multinazionale di serie B. La risposta a ciò potrebbe chiamarsi RISC-V che è una architettura per chip open sour- ce alternativa a x86 e Arm, entrambe brevetti USA che Pechino sta inizian- do a produrre e a utilizzare per i server del proprio e-commerce Ali Baba. Con ogni probabilità ciò che abbiamo visto sono solo battaglie la guerra dei chip deve ancora cominciare. «Con ogni probabilità, la posizione dominante degli USA verrà seriamente intaccata nei prossimi dieci anni» (Richard Van Atta, ex ufficiale del Pentagono specializzato nella microelettronica per la Difesa degli Stati Uniti, 2007)S ette novembre 2021. In piena COP26, Simon Kofe, ministro degli Esteri di Tuvalu, si rivolge al mondo con i piedi immersi nell›oceano: «Stiamo affondando» dirà in quell’occasione. Questa immagine, forte e allo stesso tempo drammatica, è l’emblema del legame tra crisi climatica e giustizia sociale. Non si tratta infatti solo di una questione ambientale, ma questa coinvolge anche la sfera sociale, economi- ca e politica. L›aumento delle temperature globali, l›intensificarsi degli eventi climati- ci estremi come alluvioni e siccità - o come l’innalzamento del livello dei mari - stanno mettendo a rischio non solo gli ecosistemi, ma anche i sistemi che sostengono la vita umana, compreso quello economico. La giustizia sociale si inserisce in questo con- testo, poiché le disuguaglianze esistenti vengono amplificate dalla crisi climatica: chi è più vulnerabile economicamente è anche il più esposto agli effetti devastanti del cambiamento climatico. Perché si parla di giustizia climatica Il termine giustizia climatica fu reso po- polare negli anni ’90 da alcuni attivisti del Sud del mondo che cercavano di at- tribuire il peso della responsabilità del cambiamento climatico alle nazioni ric- che e potenti, dimostrando al contempo che le nazioni più povere sono anche quelle più colpite dal cambiamento cli- matico. Un concetto che riconosce che la crisi climatica non colpisce tutti allo stesso modo: le comunità più vulnerabili, spesso quelle con minori responsabilità storiche nelle emissioni di gas serra, so- no quelle che subiscono le conseguenze più gravi. Non sono solo le nazioni in via di sviluppo a essere le più colpite, ma anche gruppi emarginati all›interno delle società industrializzate. Ecco allora che la giustizia climatica prova a correggere questo squilibrio, mettendo al centro delle politiche climatiche la protezione dei diritti umani e la distribuzione equa dei costi e benefici della transizione eco- logica. E quando questa logica fallisce ecco che possono innescarsi conflitti. La relazione tra clima e pace è profonda e complessa. Il cambiamento climatico sta aggravando conflitti esistenti e ne sta generando di nuovi. L›innalzamento delle temperature, la scarsità di risorse idriche e l›insicurezza alimentare posso- no aumentare le tensioni tra comunità e paesi, alimentando instabilità e violenza. Inoltre, migrazioni forzate dovute a di- sastri climatici possono causare pressioni sulle regioni ospitanti, incrementando il rischio di conflitti. Ma per la transizione servono ingenti investimenti e una sorta di “ridistribuzione” della ricchezza. Se ne discute da decenni. Nel 2009, i paesi ad alto reddito promisero 100 miliardi di dollari l’anno, una cifra che avreb- bero dovuto erogare entro il 2020 per sostenere l’adattamento e la mitigazione nei paesi a basso reddito. Il tira e molla è durato almeno fino all’ultima COP te- nutasi a Dubai lo scorso anno, quando si è confermata la volontà di paesi come Stati Uniti e Unione europea di fornire sostegno economico e finanziario che copra quella cifra dal 2025. Il Green Deal, un cambiamento della società e dell’economia È in quest’ottica che il Green Deal europeo ha voluto portare una nuova visione e un quadro normativo am- bizioso che mira a fare dell›Europa il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050. Tuttavia, la sfida è bilanciare l›adozione di tecnologie ver- 44 L’ECOFUTURO MAGAZINE Settembre-Ottobre 2024 Clima Esiste un legame tra crisi climatica, giustizia sociale e pace che non si può ignorare di Rudi Bressa giornalista ambientale e scientifico Il giusto del clima Foto: Simon Kofe (profilo Facebook)di con la tutela dei diritti dei lavoratori e la salvaguardia dei posti di lavoro nei settori più colpiti dalla transizione. Per questo si parla di “transizione giusta”, con investimenti mirati verso le aree più colpite e un sostegno concreto ai lavoratori che rischiano di perdere il lo- ro impiego nei settori ad alta intensità di carbonio. Quest’anno, per esempio, la Commis- sione europea ha lanciato nuove linee guida per l›implementazione industriale del Green Deal. La sfida è mantenere competitività economica e sostenibilità ambientale, garantendo che l›industria europea rimanga al passo con i cambia- menti richiesti, senza compromettere i lavoratori e le comunità più vulnerabili. È un segnale importante che dimostra come l›Europa voglia garantire una transizione che sia equa per tutti. Tuttavia, resta ancora molta strada da fare per garantire che la transizione energetica e climatica sia veramente inclusiva. Alcune aree, come il Sud Eu- ropa, continuano a essere maggiormente esposte agli effetti negativi della crisi climatica, senza ricevere adeguato sup- porto per far fronte agli eventi estremi che si intensificano anno dopo anno. La sola alluvione che ha colpito l’Emi- lia-Romagna ormai un anno fa è costata circa 9 miliardi di euro. Il ruolo delle nuove generazioni Ci sono anche movimenti sociali che ri- vendicano i propri diritti, ne parlammo in qualche numero precedente, e sono le nuove generazioni che si stanno mo- bilitando con forza, riconoscendo che il futuro che erediteranno dipenderà dalle azioni intraprese oggi. Movimenti come “Fridays for Future” hanno dato voce a una crescente consapevolezza globale: la crisi climatica non è solo un problema ambientale, ma anche una questione di giustizia sociale, tanto che ne hanno fat- to un manifesto. Il movimento italiano ha ripetutamente sottolineato la neces- sità di un cambiamento sistemico che garantisca una transizione giusta. Non si tratta solo di ridurre le emissioni, ma di trasformare profondamente il nostro modo di vivere e lavorare, per protegge- re non solo l’ambiente, ma anche i diritti delle generazioni presenti e future. La stessa “Ultima Generazione” da mesi chiede sia istituito un fondo pre- ventivo e permanente di 20 miliardi di euro pronti per essere spesi per ripagare i danni da calamità ed eventi climatici estremi. Visioni pragmatiche, dunque, più che utopiche. In questo scenario, le giovani generazioni non chiedono semplicemente un impegno politico più deciso, ma propongono una vi- sione di giustizia climatica integrata, dove la transizione verso un›economia a basse emissioni di carbonio deve an- dare di pari passo con la lotta contro le disuguaglianze sociali. Il punto forse è proprio questo: le decisioni di oggi definiranno la qualità della vita delle prossime generazioni. 45 L’ECOFUTURO MAGAZINE Settembre-Ottobre 2024L’ assedio israeliano su Gaza, in corso da oltre un anno, ha conseguenze dramma- tiche non solo sul piano umanitario, ma anche ambientale. Un rapporto preliminare dell’UNEP (Uni- ted Nations Environment Programme) evidenzia livelli allarmanti di inquina- mento del suolo, dell’acqua e dell’aria, con il rischio di danni irreversibili per un ecosistema di questa regione già estremamente vulnerabile e aggravato dalla crisi climatica. Il Medio Oriente è tra le aree più colpi- te dal cambiamento climatico, con un aumento medio delle temperature del 50% superiore alla media globale. Tut- tavia, l’impatto ambientale dei conflitti non si limita a Gaza, così come la crisi climatica non può essere confinata a un solo Paese o una singola regione. Eppure, solo da poco tempo si sta pre- stando attenzione a questo tema. Negli ultimi vent’anni, la comunità interna- zionale si è concentrata su come la crisi climatica potrebbe minare la sicurezza degli Stati, ignorando ampiamente co- me le scelte di sicurezza nazionale, come la spesa militare o le guerre, possano avere un impatto sul clima e quindi, a cascata, sulla sicurezza globale. Secondo il CEOBS (Conflict and En- vironment Observatory), istituto di ricerca britannico fondato nel 2018, l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022 ha rappresentato il primo tentativo di documentare in modo sistematico le emissioni di un conflitto. I ricercatori hanno dovuto sviluppare metodologie innovative partendo da zero. Le stime più recenti, pubblicate a gennaio 2024, indicano che le emissioni generate dal conflitto sono paragonabili a quelle prodotte in un anno da un paese come il Belgio. Una parte di queste emissioni deriva direttamente dalle attività mili- tari. Uno studio pubblicato nel 2022 proprio dal CEOBS stima che le for- ze armate contribuiscono per il 5,5% delle emissioni globali di gas serra ogni anno. Questo rende l’impronta car- 46 L’ECOFUTURO MAGAZINE Settembre-Ottobre 2024 Conseguenze Sui danni ambientali dei conflitti i dati sono pochi e le conseguenze sono a oggi ignote di Marco Magnano Clima di guerrabonica militare globale, anche senza tenere conto dei picchi di emissioni legati ai conflitti, la quarta più grande dopo quelle generali di Stati Uniti, Ci- na e India. Clima ignoto Tuttavia, si tratta soltanto di stime, per- ché il settore militare è immerso in una cultura dell’eccezionalismo, proietta- ta direttamente negli accordi climatici delle Nazioni Unite. Su pressione degli USA, le emissioni del settore milita- re erano state escluse dal Protocollo di Kyoto sul clima del 1997 e poi reintro- dotte su base volontaria con l’Accordo di Parigi del 2015. Ma, a distanza di nove anni, praticamente nessun Paese pubbli- ca i propri dati e nessuno li pubblica in modo completo. Anche se alla COP28 di Dubai del 2023 la catastrofe umani- taria e ambientale in corso a Gaza e in Ucraina ha portato all’ordine del giorno l’impatto della guerra e della sicurezza sulla crisi climatica, non c’è stato alcun passo in avanti significativo verso una maggiore trasparenza e responsabilità delle forze armate o dell’industria mili- tare. Sono molte le conseguenze dirette delle guerre sul clima, dal consumo di carburante per i mezzi militari e le lunghe catene produttive e logistiche, interamente dipendenti da combustibili fossili, fino alle scelte strategiche delle forze in conflitto. Come dimostrato in conflitti recenti come quelli in Iraq, Libia e Siria, le infrastrutture legate al petrolio – dal- la produzione allo stoccaggio fino ai trasporti – diventano spesso bersagli strategici, al punto che si può dire che vengono trasformate in vere e proprie armi di guerra. Un esempio significa- tivo sono gli incendi petroliferi della Guerra del Golfo del 1991, che si sti- ma abbiano contribuito a oltre il 2% delle emissioni globali di CO 2 da combustibili fossili di quell’anno. Le conseguenze furono gravi e durature, come lo scioglimento accelerato dei ghiacciai tibetani, causato dalla fuliggi- ne depositata sul ghiaccio. Allo stesso modo, la vegetazione può essere un obiettivo. Dalla guerra del Vietnam e l’uso massiccio di defolianti chimici negli anni Settanta, fino agli incendi delle foreste del Nagorno-Karabakh (tra Armenia e Azerbaigian), probabil- mente per favorire la guerra dei droni, fino ai sistematici attacchi con fosforo bianco condotti da Israele sul Libano meridionale nell’ultimo anno. Tutta- via, un impatto forse ancora più grande è quello nel lungo periodo. Emergenze emissive Quando le infrastrutture energetiche sono danneggiate o distrutte, ma persi- ste la necessità di carburante, le persone spesso si rivolgono ad alternative più dannose e meno efficienti. Per esempio, in Siria, da anni si ricorre alla raffinazio- ne artigianale del petrolio, con processi altamente inquinanti, mentre molti Pa- esi tornano all’uso del carbone come fonte energetica primaria. Le guerre, inoltre, causano cambiamen- ti nell’uso del suolo su larga scala, che vanno dall’abbandono forzato dei terre- ni agricoli, come è avvenuto in Bosnia negli anni Novanta o alla crescente de- sertificazione, come nel caso di Siria e Iraq. Ai danni quantificabili si aggiunge l’in- debolimento dei sistemi politici, che tra le conseguenze hanno l’abbandono di politiche di transizione e la mino- re probabilità che gli Stati colpiti da conflitti partecipino a processi e pro- getti internazionali per affrontare il cambiamento climatico. Tra gli esempi più immediati in questo senso, lo stop alla presentazione dei dati sulle proprie emissioni nazionali alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambia- menti climatici (UNFCCC). La Libia, ad esempio, non ha mai presentato da- ti, mentre l’ultima comunicazione della Siria risale al 2010. Questo isolamento ostacola ulteriormente gli sforzi globali per affrontare la crisi climatica. Anche al di fuori delle guerre in corso, esiste una tendenza crescente a milita- rizzare geografie fragili che svolgono ruoli indispensabili nella regolazione del clima, che si tratti dell’espansionismo nell’Artico, che svolge un ruolo chiave nel raffreddamento attraverso l’effetto albe- do, dell’invio di truppe nell’Amazzonia brasiliana, dell’accampamento indiano sul ghiacciaio Siachen o, in futuro, della possibile militarizzazione dell’atmosfera attraverso la geo ingegneria. Questo processo si inserisce, alimen- tandolo, nella crisi climatica globale. La competizione per risorse sempre più scarse a causa dall’innalzamen- to delle temperature sta provocando conflitti sempre più frequenti e asim- metrici, spesso non dichiarati e anche per questo privi di regole, alimentando nuove e più ampie crisi migratorie, in un sistema che si autoalimenta e che sarà sempre più difficile da bloccare, se non mettendo in discussione un mo- dello di sviluppo competitivo fondato sulla crescita e sul consumo. 47 L’ECOFUTURO MAGAZINE Settembre-Ottobre 2024 Foto: Y. Masoud / Depositphotos«N o one is free, un- til everyone is free» (Nessuno è libero finché non lo saremo tutti). Questa citazione, divenuta una delle più belle bandiere di pace, è attri- buita a due importanti figure dei diritti umani: Martin Luther King, leader del movimento per i diritti civili degli afro- americani e, forse meno nota nel nostro Paese, Fannie Lou Hamer, attivista sta- tunitense per il suffragio e i diritti delle donne, leader nel movimento per i dirit- ti civili. Qualunque sia l’origine precisa di questa espressione, sebbene sembri distante dai temi dell’ecologia, illustra bene il legame esistente tra tutti gli esse- ri del nostro Pianeta. Finché esisteranno angoli del mondo in cui persistono in- giustizie, nessuno di noi può sentirsi al sicuro. Il nascere o meno nel lato del mondo “sicuro” è solo una questione di destino. La lotta contro la crisi climatica passa anche e soprattutto attraverso la tra- sformazione della società per giungere a una coesistenza che sia giusta e li- bera per tutti. I concetti di ecologia e pace sono profondamente legati: una gestione sostenibile delle risorse natu- rali e la protezione dell’ambiente sono fondamentali per prevenire conflitti e promuovere una convivenza pacifica. La scarsità o il degrado delle risorse naturali, come acqua e terre fertili, pos- sono causare tensioni e conflitti a vari livelli. Inoltre, il cambiamento climati- co e la distruzione ambientale possono costringere le popolazioni a migrare forzatamente, creando instabilità e conflitti nelle aree di accoglienza. Disuguaglianze, diritti civili e sostenibilità Le disuguaglianze nell’accesso alle risorse naturali possono alimentare divisioni sociali ed economiche, di- versamente una gestione equa e giusta delle risorse favorisce pace e giustizia. Lo sviluppo sostenibile, che preve- de un loro uso responsabile, riduce i rischi di conflitto e migliora la quali- tà della vita di tutti gli abitanti della Terra. Proteggere l’ambiente non solo previene conflitti futuri, ma promuove anche la cooperazione tra diverse co- munità. Il pieno raggiungimento della sostenibilità deve infatti includere non solo quella ambientale, ma anche quella finanziaria e sociale, spesso tra- scurata dal mondo occidentale. Il concetto di sostenibilità è legato a un fragile equilibrio che prevede di non lasciare nulla e nessuno indietro. Non a caso, i 17 obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, defi- niti dall’Organizzazione delle Nazioni Unite come strategia «per ottenere un futuro migliore e più sostenibile per tutti», dedicano un obiettivo proprio alla pace. L’obiettivo 16, il penultimo, promuove società pacifiche e inclusive per lo sviluppo sostenibile, garantendo accesso alla giustizia per tutti e istitu- zioni efficaci, responsabili e inclusive a tutti i livelli. A questo obiettivo sono collegati molti altri, come il 3 (“Ga- rantire una vita sana e promuovere il benessere per tutti, a tutte le età”), l’11 (“Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e so- stenibili”), il 13 (“Agire con urgenza per combattere il cambiamento climatico e i suoi impatti”), e il 15 (“Proteg- 48 L’ECOFUTURO MAGAZINE Settembre-Ottobre 2024 Buone pratiche Il rapporto tra pace ed ecologia non deriva solo dai conflitti, ma consente di sviluppare esperienze positive di Giorgia Burzachechi La pace è Eco49 L’ECOFUTURO MAGAZINE Settembre-Ottobre 2024 gere, ripristinare e promuovere l’uso sostenibile degli ecosistemi terrestri, gestire in modo sostenibile le foreste, combattere la desertificazione, arresta- re e invertire il degrado del territorio e fermare la perdita di biodiversità”). Non da ultimo, il 17: “Rafforzare gli strumenti di attuazione e rivitalizzare il partenariato globale per lo sviluppo sostenibile”. Tutti sottolineano l’ur- gente necessità nel vedere riconosciuto indissolubilmente il legame tra la cura dell’ambiente e la convivenza pacifica tra popoli. Green Belt Movement Negli anni, sono state molte le ini- ziative promosse a livello locale e internazionale per sensibilizzare sui temi della pace legata all’ecologia. Tra le più importanti, merita di esse- re ricordato il Green Belt Movement (GBM), organizzazione fondata nel 1977 da Wangari Maathai in Kenya. Il movimento è nato con l’obietti- vo di promuovere la riforestazione, l’empowerment delle donne, e la so- stenibilità ambientale e sociale. Grazie all’organizzazione, sono stati piantati oltre 50 milioni di alberi in Kenya, migliorando la vita delle comunità rurali, specialmente delle donne e con- tribuendo a ridurre la deforestazione. Queste azioni hanno aumentato la consapevolezza sui problemi ambien- tali e promosso politiche ecologiche sia a livello nazionale sia internazio- nale. Inoltre, il GBM ha giocato un ruolo importante nella democratiz- zazione del Kenya, opponendosi al regime autoritario e difendendo i di- ritti civili. L’azione pacifica ha portato Wangari Maathai a ricevere, nel 2004, il Premio Nobel per la Pace per il suo lavoro pionieristico nel collegare la so- stenibilità ambientale con la pace e la democrazia. Strategia dell’Unione Europea per la Regione Danubiana Anche in Europa esistono iniziative con obiettivi simili, come la Strategia dell’Unione Europea per la Regione Danubiana. Lanciata nel 2011, pro- muove la cooperazione tra i paesi che condividono il bacino del fiume Danu- bio, attraversando dieci Stati membri dell’UE e due paesi non UE. La stra- tegia punta a migliorare la connettività del fiume, promuovendo il trasporto fluviale e aggiornando le infrastrutture e cerca anche di proteggere l’ambiente attraverso il monitoraggio della quali- tà dell’acqua e la conservazione della biodiversità. Inoltre, sostiene lo svi- luppo economico sostenibile lungo il Danubio, incoraggiando lo sviluppo locale, e rafforza la cooperazione tran- sfrontaliera per una gestione integrata ed efficace delle risorse. Tra le iniziati- ve chiave ci sono la creazione di una rete di aree protette, il restauro delle pianure alluvionali e progetti per pro- muovere un turismo sostenibile che valorizzi i patrimoni culturali e natura- li. La sua governance è garantita da un Comitato di Coordinamento che guida e predispone le attività, supportato da piani di azione annuali che stabilisco- no le priorità e i progetti specifici da attuare. La strategia rappresenta un ap- proccio integrato per affrontare le sfide ambientali ed economiche lungo il Danubio, promuovendo uno sviluppo equilibrato e sostenibile e rafforzando la cooperazione tra i paesi coinvolti. MAB - Man and the Biosphere Infine, in Europa esiste anche il pro- gramma MAB - Man and the Biosphere, un’iniziativa dell’UNESCO lanciata nel 1971 per promuovere la sostenibi- lità ambientale attraverso una gestione sostenibile delle risorse naturali e della biodiversità. Il programma mira a stabili- re un equilibrio tra le esigenze di sviluppo umano e la conservazione della biosfera, considerando le interazioni tra gli ecosi- stemi naturali e le attività umane. MAB si propone di raggiungere diversi obietti- vi fondamentali, come la conservazione della biodiversità, con l’intento di salva- guardare gli ecosistemi naturali e le specie viventi, e di garantire la protezione delle aree di grande valore ecologico e biolo- gico. Inoltre, promuove una gestione sostenibile delle risorse naturali, sup- portando sia la sostenibilità ambientale che lo sviluppo socioeconomico delle comunità locali. Il programma stimola anche la ricerca scientifica e il monito- raggio degli ecosistemi per comprendere meglio le dinamiche ecologiche e le loro interazioni con le attività umane. Infi- ne, si impegna a favorire l’educazione ambientale e a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza della biosfera e delle sue risorse per le generazioni pre- senti e future. In sintesi, il Programma “L’uomo e la biosfera” (MAB) è un’importante ini- ziativa globale dell’Unesco che cerca di armonizzare la conservazione ambien- tale e lo sviluppo umano attraverso la creazione e la gestione di riserve della biosfera. Tra le riserve della biosfera del programma MAB, il Parco della Sila in Italia è un esempio di gestione soste- nibile delle risorse forestali e montane in Calabria, mentre il Parco Nazionale del Gran Paradiso, anch’esso in Italia, si estende tra il Piemonte e la Valle d’Aosta ed è riconosciuto per la sua biodiversità e le sue attività di conservazione. Next >