< Previous Biogas fatto in casa Il biogas domestico può essere una soluzione per i paesi del sud del Pianeta IL MONDO CHE CAMMINA / di Michael Niederbacher* O ggi sono tre miliardi le persone che utilizzano combustibili solidi, co- me legno e carbone, per soddisfare i propri bisogni energetici. La mag- gior parte si trova in America, in Asia e in Africa e in questi ultimi due continenti, circa l’80% dell’energia prodotta con questi combustibili è usata a scopo domestico. Dall’utilizzo su ampia scala di queste fonti energetiche nei paesi in via di sviluppo de- rivano svariate problematiche. Oltre a quelle circa l’ecosistema in cui viviamo - come la deforestazione, il cambiamento climatico e l’inquinamento dell’aria - vi sono an- che conseguenze legate alla salute degli individui. Alto è il numero dei casi di malattie e danni fisici dovuti al fumo all’interno delle mura domestiche, con un valore intorno ai quattro milioni di morti nel mondo ogni anno. Purtroppo la maggior parte delle vittime risultano essere donne e bambini, che sono i soggetti più colpiti, sia a causa dell’inalazione del fumo ma anche per i numerosi incendi domestici. Le stufe a biogas sono una soluzione ottimale per proteggere le persone: sia perché riducono i proble- mi agli occhi e le infezioni polmonari causate dal fumo, sia perché favoriscono la ridu- zione del volume di rifiuti organici in decomposizione, e le patologie associate. La produzione di biogas domestico, quale sostituto dei combustibili solidi e della pa- raffina che è usata per illuminare, è una soluzione efficace a questi problemi. In Asia, la prima nazione a inserirsi nel mercato del biogas, fu la Cina già nei primi anni ’60. Nel paese si possono contare oggi una vasta rete di digestori, sia per le piccole famiglie agricole, sia per una produzione a livello centralizzato. In India, stando al Technology brief 2017 dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (IRENA), gli im- pianti installati sono circa cinque milioni, ma solo lo 0,4% delle famiglie rurali li uti- lizza. Ciò è causato anche da alcuni fattori culturali presenti nella popolazione come la riluttanza all’utilizzo di rifiuti animali e umani e all’incapacità di provvedere la giu- sta quantità di feedstocks oltre ad una mancanza di un know-how tecnico. In generale, negli anni 2000 la Cina, l’India, il Vietnam, il Nepal e altre aree del sud- est asiatico sono quelle che hanno visto una più rapida diffusione degli impianti di di- L'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 201959 L'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2019 Biogas cronologia I sumeri adottano la pulizia anaerobica dei rifiuti Plinio il vecchio è il primo a vedere, e a descrivere i barlumi sotto la superficie della palude Alessandro Volta, in vacanza raccoglie gas sul lago di Como Michael Faraday svolge degli esperimenti sul gas di palude John Dalton, Thomas Henry, Humphry Davy fanno la prima descrizione della molecola di metano Amedeo Avogadro definisce la struttura odierna del metano In Francia si avviano i primi processi di fermentazione anaerobica Antoine Béchamp scopre i microorganismi che servono per la conversione dell'etanolo in metano Gustavo Herter scopre la conversione dell'acetato in metano e anidride carbonica Louis Pasteur inizia la produzione di biogas Primi impianti a biogas domestico 3000 a.C. 50 a.C. 1776 1800 1821 1850 1868 1876 1884 1960 gestione anaerobica. Nel caso del Nepal, grazie al biogas la riduzione dell’utilizzo del- la legna da parte delle unità famigliari è scesa quasi del 50%, mentre la Cina è diventa- ta uno dei produttori più importanti al mondo. Per quanto riguarda invece l’Africa l’adozione del biogas è stata incoraggiata da diver- se aziende internazionali. Questo ha contribuito a ridurre i costi energetici per le fa- miglie, realizzando impianti che si basano su scarti di origine animale. In generale, sia nel continente asiatico che in quello africano, per far sì che il mercato del biogas possa continuare a svilupparsi, le sfide sono ancora molte. Mancano spesso delle politiche adeguate e in alcuni casi le condizioni climatiche non favoriscono i processi di digestione anaerobica, come in alcune regioni del Nepal, dove le tempera- ture possono scendere anche sotto i 10° C. Anche la partecipazione dei privati nel promuovere il biogas non è elevata poiché il basso reddito di queste popolazioni limita le possibilità di sostenere i costi di realizza- zione degli impianti. Inoltre, vi è una mancanza di conoscenze tecnologiche riguardo alla costruzione, l’operatività e il mantenimento degli stessi. Secondo l’Organizzazione per lo Sviluppo dei Paesi Bassi (SNV), il biogas potrebbe essere usato per i consumi domestici da circa 18,5 milioni di persone in ben 24 paesi dell’Africa. Queste stime sono basate sulla considerazione di elementi chiave che sti- molano la costruzione di digestori quali: il possedimento di bestiame da parte delle unità famigliari, la disponibilità di acqua, la scarsità del legno e la densità della popo- lazione. Nonostante queste difficoltà, la diffusione del biogas in Asia e in Africa ha portato a numerosi progressi. Le condizioni igieniche e la qualità della vita delle famiglie ne hanno guadagnato molto. Da un lato la possibilità di cottura dei cibi ha portato a una maggiore sicurezza alimentare riducendo la diffusione di malattie intestinali, dall’al- tro - come dicevamo - la mancanza di fumo nelle abitazioni ha ridotto l’incidenza del- le malattie respiratorie e per la vista. La fertilità dei terreni e la produttività agricola sono aumentate grazie all’utilizzo del digestato come fertilizzante. Infine, grazie all’u- tilizzo di lampade a biogas, una soluzione migliore rispetto ai metodi tradizionali di illuminazione come le lampade a cherosene, è migliorata l’illuminazione notturna. Ultimo, ma non meno importante, la diffusione degli impianti a biogas ha stimolato l’economia nazionale, dal momento che la costruzione degli impianti ha creato posti di lavoro nei settori della carpenteria e dell’idraulica. Per questi motivi, offrire un so- stegno alla diffusione del biogas domestico nei paesi in via di sviluppo significa dar loro la possibilità di migliorare la qualità della vita e di far crescere l’economia su gran parte del territorio. ▲ *Founder e CEO di BTS Biogas Germogli verdi: le scuole Si diffondono le esperienze di educazione in Natura EDUCAZIONE / di Jaime Enrique Amaducci* D i fronte al grido di allarme di Greta Thunberg, i germogli di “Scuole verdi” che stanno crescendo sulle lande italiane, sono di buon auspi- cio. Come dice Daniel Goleman, nel periodo di Antropocene che stiamo vivendo “caratterizzato soprattutto dai modi in cui gli uomini stanno modificando i sistemi naturali, dato che la vita dipende da questi sistemi per i bisogni di base, compresi acqua, cibo e clima ospitale, è ovvio che ci sia molto in gioco e ci sono anche abbondanti opportunità per insegnare cose molto rilevanti”. Se si pensa però alle scuole italiane, forse ci arrivano agli occhi le immagini di aule “Siamo di fronte a una minaccia esistenziale. Questa è la crisi più grave che l’umanità abbia mai subito. Noi dobbiamo anzitutto prenderne coscienza e fare qualcosa il più in fretta possibile per fermare le emissioni e cercare di salvare quello che possiamo. Se è impossibile trovare soluzioni all’interno di questo sistema, allora dobbiamo cambiare sistema.” Greta Thumberg “Le necessità del pianeta sono lenecessità della persona. I diritti della persona sono i diritti del pianeta” Theodore Roszak L'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2019 L'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2019 Tutto ciò che accade nel mondo influenza la vita di ogni persona che tiene nelle sue mani una responsabilità unica e singolare nei confronti del futuro dell’umanità. La scuola può e deve educare bambini e adolescenti a questa consapevolezza/ responsabilità. È decisiva una nuova alleanza fra scienza, storia, discipline umanistiche, arti e tecnologia, in grado di delineare la prospettiva di un nuovo umanesimo. Perseguendo la consapevolezza che i grandi problemi: degrado ambientale, caos climatico, crisi energetiche, distribuzione ineguale delle risorse, salute e malattia, incontro e confronto di culture e di religioni, dilemmi bioetici, ricerca di una nuova qualità della vita, si possono affrontare e risolvere con la collaborazione fra le nazioni, fra le discipline e fra le culture. *Già maestro elementare, pedagogista e preside come alberi spogli, tristi, con banchi messi uno dietro l’altro, dotate al massimo di LIM (non sempre funzionanti) con rigide organizzazioni orarie da sessanta minuti, scandite da campanelle del tempo che fu. Ma sono tutte così? Non sembra. Esistono le Scuole nel bosco di Danilo Casertano, le Scuole senza zaino di Marco Orsi, le Scuole all’aperto, avviate sulla base della tradizione bolognese. Così pure come ab- biamo altre realtà scolastiche le cui azioni formative amoreggiano con Gea. Già Rousseau parlava dell’importanza di vivere esperienze in natura, mentre John Dewey e Maria Montessori sono i punti di riferimento di quella che oggi viene chiamata Outdoor Education. Con tatto, con la natura, riconquista dei quattro sensi, cooperazione, ascolto, parola, tempi distesi a misura di bambino, suoni, colori, sapori, uso delle mani, laboratori, imparare dal fare: è una vera e propria sfida culturale quella che stanno giocando le Scuole verdi. Una sfida che parte dalle necessità delle persone per arrivare a quelle del pianeta, abbracciate le une alle altre. Gli innaturali “mobile born” La nuova generazione dei post nativi digitali, i mobile born, cresce con il ciuccio in bocca mentre guarda mamme e papà, modelli che “passerellano” con compulsioni smartphoniane di taglio vario. Oppure passa ore e ore a fianco di sorelle o di fratelli maggiori che si “sbattono il tempo” libero tra Youtube o Youporn, Facebook, Insta- gram, quando non assumono la dose quotidiana di violenza da giochi del tipo “spara omuori”. Purtroppo, la vita dei nostri bambini, dei nostri ragazzi, è rischiosamente urbana e virtuale, spesso vissuta davanti ad uno schermo tra onde di solitudini affo- ganti. Crescono tra le mura in maniera innaturale, con bulimiche agende settimanali, facili prede di un mercato che li vuole consumatori sin dalla più tenera età, ovvero gli “uomini a una dimensione” denunciati da Marcuse. La scuola rappresenta una delle ultime opportunità per fronteggiare tali subdole insidie. Può farlo solo ri-trovando la natura, insegnando “cose molto rilevanti” e, allo stesso tempo, facendo capire che non si tratta solo di bei paesaggi da selfare e da postare su un social, ma di tesori da difendere, da conservare, da amare, ovvero del nostro futuro. Anche questo è il senso delle Scuole Verdi che stanno germogliando e vivono un fer- tile momento di trasformazione, da realtà disseminate a macchie di leopardo a un li- vello generalizzato nella scuola pubblica. I diritti naturali dei bambini Le Scuole Verdi, accomunano la loro linfa assorbendola dalla pedagogia della lumaca del compianto Gianfranco Zavalloni, in particolare, dai dieci Diritti Naturali dei bambini da lui declinati. Ovvero il Diritto: · all’ozio, a vivere momenti di tempo non programmato dagli adulti; · a sporcarsi, a giocare con la sabbia, la terra, l’erba, le foglie, l’acqua, i sassi, i rametti; · agli odori, a percepire il gusto degli odori, riconoscere i profumi offerti dalla natura; · al dialogo, ad ascoltare e a poter prendere la parola, interloquire e dialogare; · all’uso delle mani, a piantare chiodi, segare e raspare legni, scartavetrare, incollare, plasmare la creta, legare corde, accendere un fuoco; a un buon inizio, a mangiare cibi sani fin dalla nascita, bere acqua pulita e respirare aria pura; · alla strada, a giocare in piazza liberamente, a camminare per le strade; · al selvaggio, a costruire un rifugio-gioco nei boschetti, ad avere canneti in cui na- scondersi, alberi su cui arrampicarsi; · al silenzio, ad ascoltare il soffio del vento, il canto degli uccelli, il gorgogliare dell’acqua; · alle sfumature, a vedere il sorgere del sole e il suo tramonto, ad ammirare, nella not- te, la luna e le stelle. Diritti della persona e del pianeta, chicchi di grano coltivati negli Orti di pace zaval- loniani; ma questa è un’altra storia da raccontare. ▲64 N el regno delle rocce e degli alberi, in quello delle nuvole e del vento, nella dimen- sione del silenzio e della pace, c’è posto solo per la fatica della contemplazione delle altitudini, la meditazione senza nome che ti prende quando tutto tace, quando i tuoi pensieri si riducono a un sibilo, mentre ti fai piccolo, come sei in verità, di fronte all’immensità. Non li conosco e non ho mai letto nulla di loro ma credo che cercassero proprio questo i primi turisti del Nord che fecero delle Dolomiti una meta ambita per molti viaggiatori. Era la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra, il progredire rapido e poi rapidissimo della scienza e della tecni- ca, una volontà di potenza che consumava campagne e città, sempre più grandi. Era la fine del- la magia naturale e dello sconosciuto, che gli animi sensibili e inquieti andavano a cercare lon- tano dalle nascenti zone industriali. Oggi io e molti altri ripercorriamo gli stessi passi, gli stessi intenti e desideri, quelli di allontan- arci dalle comode case e città d’Occidente, dalla corsa frenetica delle macchine e del digitale, dai rumori e dalle troppe opinioni su tutto e il contrario di tutto, per ritornare verso un’altra casa, l’ òikos degli antichi, l’ eco dei moderni, la natura non più estranea ma parte di noi, e noi di lei. Illuminarsi d'immensità Parole in cammino tra le Dolomiti meno conosciute quelle friulane. Per un turismo più consapevole VIAGGIARE SLOW / di Luca Vivan* L'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 201965 L'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2019 Sono passati 10 anni dal riconoscimento delle Dolomiti Friulane come Patrimonio Mondiale dell’Umanità, un lungo percorso che ha richiesto verifiche e disposizioni, misure di tutela e salvaguardia. Pochi sanno che proprio questo lembo di monti tra il Veneto e il Friuli, forse il meno conosciuto e frequentato, ha contribuito alla candida- tura di tutti i 9 sistemi di questo patrimonio UNESCO. Il motivo è un colpo d’occhio che abbraccia valli dove a malapena si intravvede una striscia di asfalto, che diventa subito ghiaia. Qui non ci sono impianti di risalita o jeep che ti portano in alto, le Do- lomiti vanno raggiunte a piedi, come accadeva agli esploratori inglesi e tedeschi due secoli fa. Non servono sempre i dislivelli però, basta entrare in Val Cimoliana, uno dei princi- pali punti d’accesso al Parco Naturale delle Dolomiti Friulane per cominciare a las- ciarsi alle spalle le preoccupazioni della folle pianura. Basta camminare in piano, len- tamente affiancare prati e case di pietra, guardare con reverenza gli abeti abbattuti dal- la tempesta Vaia nell’autunno del 2018 e ascoltare il torrente Cimoliana che dà il 66 Le Dolomiti Friulane e d’Oltre Piave sono uno dei 9 sistemi dolomitici che compongono il patrimonio mondiale UNESCO stabilito il 26 giugno 2009. Quest’anno ricorrono quindi i primi dieci anni di riconoscimento di un complesso di valli e cime montane che hanno caratteristiche geologiche, morfologiche e naturali uniche al mondo. Non tutte godono della tranquillità di quelle Friulane, perché il turismo meno sostenibile ha saputo arrivare anche tra le cime dei monti. L’equilibrio tra redditi dignitosi per chi vive la montagna, perché non sia costretto a scappare nelle città di pianura, e quello della natura unica e preziosa di questi luoghi, è un cammino che va percorso con l’idea che sempre più persone al mondo cercano e hanno bisogno proprio della pace che le Dolomiti possono offrire. 2009 Le Dolomiti Friulane, un colpo d’occhio che abbraccia valli dove a malapena si intravvede una striscia di asfalto, che diventa subito ghiaia. *autore, blogger, formatore nome alla valle. Si può andare avanti così, senza fatica, per alcuni chilometri, finché si scorge una radura tra i faggi, una seduta di sassi ricoperti dai muschi, dove sdraiarsi e fissare il cielo che si muove lentamente tra le foglie degli alberi. Se hai bisogno invece di incamminarti e di ascendere, i sentieri sono molti ma occorre attenzione e preparazione, perché la tempesta Vaia non ha abbattuto solo alberi, ha anche trasformato il paesaggio, cambiando le sottili tracce dell’uomo tra questi bos- chi. Prima di partire informati, chiedi notizie ai gestori del Rifugio Pordenone , che in questo periodo stanno lavorando con grande pazienza e impegno per ripristinare l’ac- cessibilità del Parco. Con i tempi della natura, che non sono quelli dell’essere umano moderno, che vuole tutto e subito, i sentieri torneranno pienamente agibili e allora potrai percorrere un itinerario tra le Dolomiti ai margini dei grandi racconti e del grande turismo. L’anello delle Dolomiti Friulane è ancora cosa per pochi, perché questa zona d’Italia non si è mai imposta come destinazione di massa, perché i disliv- elli pesano e trattengono a valle molte persone. Questa barriera naturale potrebbe es- sere un male per chi aspira a flussi turistici imponenti ma le montagne e i suoi estima- tori ringraziano. Qui si viene per camminare e contemplare, il silenzio e la quiete sono la ricompensa di tanti sforzi. L’anello è una delle possibilità più lunghe per entrare in contatto con queste Dolomi- ti “fuori traccia”. Sono appena tre notti, quattro rifugi e infiniti dettagli da vivere con ammirazione, istantanee dei boschi, che salgono fino a farsi radi cespugli di pino mu- go e poi piccoli fiori testardi, che spuntano tra le rocce maestose. Là nelle forcelle, mentre in alto le nuvole si sfilacciano danzando rapide sulle cime, ci sono i bastioni di fortezze antiche di milioni di anni, rocce che furono atolli tropicali, spinti qua oltre i 2000 metri. Qui ti afferra una pace sovrumana che rende superfluo tutto. Non ci sono parole, rimaste più in giù. Qui comprendi il sublime che andavano cercando i primi turisti del mondo, viaggiatori animati da una lentezza e sensibilità che in tanti voglia- mo rimettere al centro dei nostri cammini. Le mie parole ho finito per condensarle in un libro, il mio primo, un omaggio a queste montagne, a queste dolomie che puoi scorgere solo salendoci a piedi, a queste valli dai nomi che evocano le forze della terra e del cielo, Val Montanaia, Val d’Inferno, Val di Guerra, nomi dell’uomo a far da contrasto alla pace che regala la natura, anche quan- do tracima, abbatte e rovina, come lo scorso autunno. I suoi messaggi, sempre più for- ti ci invitano a rallentare, a scendere, a prendere consapevolezza dei suoi tesori, come le Dolomiti Friulane. ▲ L'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2019Next >